giovedì 31 gennaio 2013

Una voglia che sa di casa.


Sono un po’ malinconica. Senza tanti giri di parole, mi manca casa. Ho fatto, per ora, due mesi pieni qui a Londra. Tuttavia, alla fine delle prime quattro settimane sono ritornata a casa per qualche giorno in occasione delle feste di Natale. Per cui non feci in tempo ad ambientarmi che era già ora di ripartire per l’Italia e la nostalgia di casa non ebbe molto tempo per arrivare impetuosamente nella mia quotidianità. Inoltre frequentavo tutti i giorni, tutto il giorno, la scuola che in qualche modo era diventata il mio “habitat”. Un posto in cui passavo gran parte della giornata, un appuntamento fisso in cui la mia quotidianità era scandita e organizzata almeno per le ore trascorse lì.
Da quando sono ritornata a Londra è passato un altro mese e la nostalgia di casa si fa sentire a squarciagola. Forse anche complice il fatto che Lui è ripartito l’altro ieri dopo aver trascorso qualche giorno qui con me, il mio umore non è lo stesso e mi sento piuttosto giù di corda. Sulla metropolitana insieme, Lui in direzione Liverpool street per prendere l’autobus per l’aeroporto e io in direzione lavoro, mi sono sentita mancare l’aria quando l’ho salutato. Alla mia fermata sono scesa e l’ho guardato ripartire. Con il nodo in gola e lo sguardo fisso su di Lui, ho seguito quel vagone fino all’ultimo secondo, fino a quando l’ho perso nel buio del tunnel sotterraneo. L’avrei voluto rincorrere, per rimanere con Lui e per non sentirmi persa. Confusa e triste sono andata di corsa al lavoro mentre non pensavo ad altro che a Lui e alla voglia di tornare a casa. Per me non è facile stare via tanto tempo, proprio per niente. Nonostante le chiacchierate infinite su Skype con mia madre, nonostante il messaggino di mio padre che puntualmente arriva quando è al lavoro di notte, nonostante gli aggiornamenti in diretta di mio fratello con frequenti sms, nonostante mio cugino che mi scrive per raccontarmi le sue ultime conquiste, nonostante tutto questo mi mancano tutti. E vorrei tanto tornare da loro.
Ora dico, ci ho messo anima e corpo per trovare un lavoro e ora che ce l’ho fatta voglio andare via? Ovviamente non prendo decisioni affrettate, dovute ad un momento di malinconia che potrebbe essere momentaneo. Perché si tratterebbe di stringere ancora un po’ i denti, per avere un risultato sicuramente migliore, ovvero un’esperienza in tasca più completa di studio e di lavoro. Anche perchè una volta che la porterò a termine non potrò mai più riprenderla. Il discorso Londra terminerà con un punto e non certamente con una virgola. Il giorno che ritornerò in Italia inizierà un nuovo capitolo della mia vita che non prevederà la possibilità di ripartire per un tempo relativamente indeterminato. Questa è l’opportunità ed è unica. Questo treno è passato nella mia vita al momento “giusto”, io l’ho preso e ci sono ancora sopra, ma quando scenderò non farà un’altra fermata lungo il mio percorso. Quindi devo sfruttare al massimo questa corsa, in tutti i sensi. Però ora non lo sto facendo nel migliore dei modi, perché le mie cuffie sono chiuse nella taschina posteriore della borsa e solo quando le rimetterò negli orecchi passeggiando con la mia musica preferita a tutto volume per questa magica città, potrò dire di godermi nuovamente questa esperienza. Solo quando mi risorprenderò a percorrere le vie dell’underground canticchiando qualche canzone che mi è rimasta in testa avrò nuovamente l’umore alle stelle. Quell’umore che più volte mi ha resa incantata di fronte alle sorprese che questa esperienza ha saputo riservarmi. 
Voglio assolutamente ritrovare quell’adrenalina che Londra è stata capace di incollarmi addosso. Perché so che ha tutte le capacità per farlo. Perché so che, in fondo, ho ancora voglia di vivere per un po’ in questa parte di mondo.

giovedì 24 gennaio 2013

Una convivenza multietnica.


In casa siamo in sei persone e cinque nazionalità diverse. Io sono l’unica italiana. Volutamente. Cioè non volevo vivere con persone che parlassero la mia stessa lingua perché sennò sarei finita per parlare italiano e non inglese. Volevo sfruttare al massimo questo periodo a Londra per migliorare il più possibile la lingua. Ero consapevole che sarebbe stato molto più difficile, perchè con gli italiani il legame è immediato e la conversazione può arrivare ovunque. Io mi sarei ritrovata, invece, a capire poco o nulla e ad avere continuamente difficoltà ad esprimermi. Ma ritengo che è proprio in questo momento che si impara, quando si è costretti a comunicare. In più mi sarei fatta qualche nuova conoscenza straniera, visto che quando sono arrivata non conoscevo nessuno.
Nel periodo in cui cercavo casa stavo diventando matta perché qui affittano anche le tane dei topi. Non che io volessi la camera della regina Elisabetta, ma nemmeno una con la moquette lercia e puzzolente. Odio la moquette, attira la polvere e non si pulisce bene se non con appositi macchinari. Poi se uno entra in casa con le scarpe sudice pensando che sia uno zerbino ancora peggio. Tuttavia, qui piace molto. A volte anche nel bagno e non sto scherzando. Perchè almeno quando esci dalla doccia trovi un morbido peluche su cui asciugare immediatamente i piedi. Non ce la posso fare! Ora, siamo fatti in tanti modi per carità, però diosanto non ti fa schifo strofinare i piedi su un coso peloso che rimarrà lì a vita e sul quale si sono asciugati decine di inquilini prima di te??? E dove magari qualcuno  ci  passa quotidianamente con le scarpe? Questo è solo uno dei tanti episodi a cui ho assistito, perché di case ne ho viste abbastanza. Non che io fossi particolarmente esigente, le cose che cercavo erano due: no moquette e casa vicina alla fermata di metro e autobus. Perché quà sono sola e quindi qualche accorgimento devo pur averlo, in quanto se la sera non torno nessuno in casa se ne accorge. 
Comunque, un pomeriggio fisso l’ennesimo appuntamento per vedere l’ennesima casa. Arrivo alla fermata della metro e subito noto che il portone è proprio lì davanti. Perfect!!! Questa cosa già mi piace. Entro e anche la casa non è male, niente di che ma almeno non c’è la moquette. Il prezzo è ragionevole, per quanto possa essere ragionevole un affitto a Londra. La fermo subito, ancora prima di uscire, per evitare di cadere nell’errore fatto con un’altra casa, in cui avevo detto che ci avrei pensato e quando due ore dopo ho richiamato per confermare era già stata affittata. Quindi casa bloccata ma contratto da fare. E qui non vi sto a raccontare l’epopea, immaginatevi da sole/i me con la tipa che mi spiegava tutti i termini del contratto, i pagamenti e le varie cose inerenti la casa e io che non capivo una mazza. Dopo essermi messa le mani nei capelli diverse volte ho deciso di chiamare Lui, incaricandolo di parlare con la tizia perché io avevo disconnesso il cervello e non la seguivo più. Lo prego di ripassarmela quando il mio compito era soltanto quello di firmare.  


L’ingresso in casa sarebbe stato due giorni dopo, il sabato mattina. Ho aperto la porta e ho annunciato il mio arrivo con un “Hello!”, memore delle abitudini universitarie che quando qualcuna rientrava in casa ancora sulla porta gridava “ciaoooo”. Ma al mio saluto non c’è stata alcuna risposta. Non solo, non vedevo e non sentivo nessuno. Oh, eppure in quella casa oltre a me ci erano altre cinque persone. Non sapevo cosa fare, se bussare in qualche stanza e presentarmi, se aspettare, se fare la posta a qualcuno e uscire di camera come sentivo i suoi passi. In più tutte le porte erano chiuse e non mi ricordavo quali erano quelle dei due bagni.


Voi cosa avreste fatto? Io ho subito chiamato Lui in preda al panico perché già mi sentivo sola, solissima in una casa sconosciuta, con degli sconosciuti che nemmeno aprono la porta per conoscere la nuova coinquilina. Fantascienza per una tipa socievole come me. Mi sono messa a sfare le valigie, aspettando che qualcuno uscisse dalla propria stanza per un semplice bisogno fisico. Mentre ero lì in diretta skype con Lui ecco che ho sentito il rumore di una maniglia aprirsi. Mi sono precipitata nel corridoio e mi sono presentata.
“Hi, nice to meet you, Princi. I’m the new flatmate”.
“Nice to meet you”.
Sconvolta sono rientrata in camera, più nel panico di prima. Cioè, il ragazzo nemmeno si è fermato per presentarsi, ha sbrodolato un nice to meet you proseguendo verso quello che poi ho scoperto essere il bagno.
I primi giorni in casa sono stati difficili. Fino a quando stavo con i miei amici ero tranquilla, certo ero frastornata perché non conoscevo la città e non capivo una ceppa, però quando tornavo a casa ad accogliermi c’erano dei volti conosciuti. La prima sera nel nuovo appartamento, da sola in camera pensavo alle mie deluse aspettative, forse dettate dalla bellissima convivenza vissuta durante il periodo universitario. Quel sabato, per la prima volta dall’inizio della mia avventura a Londra mi sono sentita sola. Non vi nego che alcune volte ho anche pensato che una volta finita la scuola sarei ritornata in Italia senza più tornare a Londra. Mi sentivo persa, quella casa era un albergo. Non c’era un momento di condivisione, una cena seduti allo stesso tavolo, due chiacchiere di fronte ad un tè. Per riuscire a vedere tutti gli inquilini mi sono serviti giorni. Qua la gente fa parecchio i fatti propri. Poi lavorando tutti, i tempi di sosta in casa sono diversi. Chi lavora in ufficio fa rientro a casa quando chi lavora al ristorante esce e quindi capita che non ci si veda per giorni.  
Piano piano però le cose sono migliorate. Il “problema” è che non tutte le culture sono aperte come lo è la nostra. O perlomeno i tempi di apertura sono diversi. Domenica scorsa, per esempio, abbiamo pranzato tutti insieme e il pomeriggio ci siamo presi un tè con i biscotti. Il ragazzo del nice to meet you però non si aggrega mai, è molto chiuso. Una ragazza della Repubblica Ceca che vive con me mi ha eletta la sua “critica” di fiducia, perché sta facendo un corso di cucina e ogni volta che sforna qualcosa riserva una porzione per me. Per cui sono all’ingrasso perché le piace tantissimo cucinare i dolci e, per esempio, ora sto scrivendo mentre mi sto gustando una tortina meringata con crema al limone. Deliziosa!
Ad oggi, superate le difficoltà iniziali, posso dire che anche questa convivenza mi sta dando tanto a livello personale. Innanzitutto mi ha messa alla prova, imponendo al mio carattere esplosivo di rispettare i tempi altrui. Una prova che ho superato perché a Londra ci sono ritornata. Non avrei mai pensato di condividere degli spazi con culture così diverse, ma sono contenta di averlo fatto. Perché questa esperienza mi ha fatto superare molti pregiudizi verso il “diverso”. 

lunedì 21 gennaio 2013

Soho... e la libertà di essere.



Ieri sera sono stata a Soho. Luci, colori e trasgressione sono il “must” del quartiere. Un sacco di locali, di gente e di musica. Ero con F., una ragazza conosciuta lo scorso mese alla scuola d’inglese. Appena arrivate eravamo spaesate, la quantità di locali uno a fianco all’altro ci metteva voglia di girarli tutti, però non sapevamo in quale entrare e da quale iniziare. Cercavamo di sbirciare quello più carino, ma da fuori poco si vedeva e soprattutto sembravano tutti davvero originali. La nostra incertezza è stata presto risolta. Ci ha fermate un promoter invitandoci ad entrare nel locale per cui stava lavorando con un semplice “free entry”. Nel frattempo, però, un ragazzo ci stava litigando perché, a quanto pare, il promoter in questione lo aveva scansato con uno “zitto gay”. Tra il seguire il tipo che promuoveva il locale e l’altro ragazzo che sicuramente conosceva molto bene il posto, abbiamo preferito questa seconda strada, convinte che ci avrebbe portato in un locale “autentico” della zona. Mentre passeggiavamo con lui in direzione pub, abbiamo fatto due chiacchiere e abbiamo scoperto un ragazzo simpaticissimo che si è stupito di come noi eravamo libere da pregiudizi verso di lui. Un ragazzo che in quell’ambiente si sentiva davvero sé stesso e libero di manifestare la propria natura senza inibizione, andando anche oltre a quello che è lo stereotipo di comportamento maschile. Ma quello era lui, la sua vera persona che si stava esprimendo in un ambiente che non la faceva sentire estranea e imprigionata. Un ragazzo coinvolgente, che appena entrate nel locale si è perso in balli scatenati. Un ragazzo che sicuramente non rivedrò mai più, ma che mi ha fatto piacere incontrare lungo questo percorso.
Presto, abbiamo conosciuto un altro ragazzo, parlava un inglese fluente con una pronuncia piuttosto British che tutto lasciava intendere fuori che fosse italiano, ma poco dopo abbiamo scoperto essere del Bel Paese. Tuttavia, non ha ammesso l’Italiano nella nostra conversazione. Per me è stato sicuramente positivo, perché parlare con la gente è il modo migliore per fare pratica e migliorare l’Inglese, ma dietro la sua richiesta c’era una certa avversione verso la terra natia e tutto quello che la riguarda, lingua compresa. È stata una conversazione interessante, che ci ha portati al di là del tradizionale “come ti chiami?”, “da dove vieni?”, “perché sei a Londra?”. Mi ha aperto le porte della sua quotidianità, fatta di cose semplici, quelle di un ragazzo qualunque, ma con a fianco un uomo. Mi ha raccontato che la sua famiglia non conosce la vera natura della sua sessualità perché troppo “not open mind”. È scappato da quella terra dove i pregiudizi della gente lo inchiodavano in una vita in disparte ed emarginata, per approdare in un posto dove si è sentito libero di essere quello che è. È fuggito da una famiglia che non ha mai voluto vedere e comprendere la sua vera natura per non dover fare i conti con quella che sarebbe stata, per loro, una delusione. Non ha resistito a quella vita fatta di silenzi, di omertà e di falsità. Dove l’obiettivo dei genitori era crescere un figlio e “sistemarlo”, prescindendo dal suo essere e dalle sue necessità. Dove la mentalità è troppo chiusa per accettare l’omosessualità, per non dare peso a “lui è gay”. Fuggire ha significato incontrare la libertà. Di vivere. Di esprimersi. Di essere.
Questa serata in questo quartiere così “eccessivo” oltre a farmi divertire un sacco mi ha portata a delle riflessioni non scontate. 

venerdì 18 gennaio 2013

It's a boy!


Da anni in cerca della cicogna, stremati dall’attesa di vedere realizzato il sogno di diventare genitori, smarriti in questa vita senza riuscire a trovarne la ragione, privati di quel sorriso che li rendeva solari, ormai impazienti di stringere tra le braccia quel figlio che non riusciva ad arrivare ma bisognosi al tempo stesso di creare la loro famiglia, decisero di ricorrere all’adozione.
Questo non è un punto di arrivo, bensì di inizio. Infatti, la richiesta di adozione richiede un iter burocratico lunghissimo. Ma il desiderio di maternità e paternità era così forte che ha dato loro la forza per affrontare anche questa “battaglia” per arrivare a lui, al loro bambino.
Qualche giorno fà, sono stati chiamati per l’ennesimo colloquio pre-adozione. Stanchi ed esauriti dopo quasi due anni di trafila, volevano rimandare l’appuntamento per problemi personali. Ma, come se una vocina li avesse chiamati, sono andati comunque al colloquio. Arrivati a destinazione, hanno fatto ingresso nella stanza che li ha visti molte volte “interrogati” e dalla quale sono sempre usciti affranti e scoraggiati. Sono stati fatti sedere nella stessa postazione di sempre. Le loro facce cupe, pronte ad affrontare l’ennesimo “interrogatorio”, improvvisamente hanno cambiato luce: “Vi abbiamo assegnato un bambino. E’ nato da soli 23 giorni e la madre naturale non ha lasciato nemmeno il nome”. Queste sono state le prime parole che hanno sentito. Di fronte alla loro forte commozione, è stata loro concessa una boccata di aria prima della chiusura di tutte le pratiche. Dal cortile di fronte sono partite le chiamate ai novelli nonni che, pronti a sostenere ancora il dolore e lo scoraggiamento dei rispettivi figli, tutto si aspettavano fuori che questo lieto annuncio. Frastornati dall’emozione e increduli dell’accaduto, sono andati di corsa al centro commerciale più vicino per comprare una carrozzina e qualche vestitino per portare a casa il piccolo. Tutto veloce, perché impazienti di raggiungere lui, quel bambino che li stava aspettando in una culla dell’ospedale, il loro bambino. Il piccolo, come se li avesse sempre conosciuti, si è lasciato immediatamente coccolare e si è perso tra le braccia di questa madre che, per la prima volta in quel momento, gli ha aperto le porte del proprio cuore, per sempre.
Di ritorno verso casa, li attendevano dei nonni impazziti dalla gioia che in poche ore hanno comprato tutto l’occorrente per il nipotino. E sulla porta di casa un grosso fiocco azzurro gli dava il benvenuto:


Buona vita piccolino!